E’ ancora incerta, e anche oggi l’Istituto superiore di sanità (Iss) lo ha ribadito, una correlazione diretta tra l’inquinamento atmosferico e la diffusione del coronavirus, ad esempio il fatto che il particolato presente nell’atmosfera possa essere un vettore per il trasporto su lunga distanza del Sars-Cov-2. Sono però diversi gli studi in corso a livello internazionale (ne aveva parlato nei giorni scorsi Sergio Harari sul Corriere della Sera).
È invece assodato, e non da oggi, che l’inquinamento abbia un impatto negativo sulla salute umana e che provochi infezioni e malattie respiratorie che possono essere un fattore di maggiore rischio in presenza di un’epidemia, agendo di fatto da amplificatore dei suoi effetti.
Le due regioni italiane maggiormente colpite da casi di Covid-19 sono la Lombardia e l’Emilia Romagna e queste sono anche tra le più inquinate, penalizzate da un territorio chiuso a sud, a ovest e a nord da catene montuose che non agevolano il ricambio dell’aria, alla cui scarsa qualità contribuiscono diversi fattori: la presenza di numerose attività produttive; l’alta densità abitativa da cui consegue un utilizzo massiccio di impianti di riscaldamento e di automobili; e un gran numero di allevamenti intensivi, che hanno un ruolo non secondario nella produzione di particolato. Ed è proprio questo il focus del rapporto diffuso oggi da Greenpeace in collaborazione con l’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale.
Il ruolo degli allevamenti
In Pianura Padana, evidenzia lo studio redatto dall’unità investigativa dell’associazione ambientalista, lo smog è prodotto non solo dagli ossidi di azoto e di zolfo ma anche, e in maniera significativa, dall’ammoniaca che, liberata in atmosfera, si combina con quegli stessi componenti generando le polveri fini, i famigerati pm10 e pm2.5. Questa ammoniaca molto volatile deriva in gran parte dai liquami degli allevamenti, attraverso la pratica dello spargimento sui terreni in funzione fertilizzante (e a volte in funzione di semplice smaltimento).
La ricerca prende in considerazione diversi studi scientifici e riporta, tra le altre, una valutazione dell’Arpa Lombardia secondo cui l’ammoniaca proveniente dagli allevamenti «concorre mediamente a un terzo del particolato della Regione, ma durante gli episodi acuti questo contributo aumenta superando il 50 per cento del totale». Sempre l’Arpa ha constatato come la componente di particolato secondario, quella appunto generata anche dall’allevamento, sia in media più bassa a dicembre e gennaio, periodo in cui è normalmente vietato lo spandimento di liquami, mentre ha picchi elevati nei mesi di febbraio-marzo e di ottobre-novembre quando tale pratica è più diffusa.
Le possibili soluzioni
Come se ne esce?
Secondo Ispra sul fronte riscaldamento è importante superare il l’utilizzo di combustibile di legno, tornato di moda con la diffusione di caminetti e stufe a pellet.
Quanto agli allevamenti, «la copertura delle vasche delle deiezioni sarebbe già in grado di abbattere di molto le emissioni di ammoniaca». Viene poi suggerito che lo Stato preveda incentivi per permettere agli allevatori di acquistare tecnologie che consentano spandimenti di fertilizzante, sia chimico che organico, più contenuti. Non solo. «I Comuni dovrebbero stabilire qual è il numero massimo di allevamenti e capi allevati che è possibile allevare sui loro territori — suggerisce Riccardo De Lauretis, responsabile dell’area emissioni e prevenzione dell’inquinamento atmosferico di Ispra —.
In caso contrario i danni si ripercuotono sui cittadini».